La genovese è un piatto napoletano, non ligure: una ricetta che profuma di casa (e di segreti mai svelati)

Ci sono piatti che si raccontano da soli, solo annusandoli. E poi c’è la genovese napoletana, che non smette di fare domande: sul nome, sugli ingredienti, e soprattutto su quell’inconfondibile magia che la accompagna.
A Napoli non è un semplice sugo. È una preparazione lunga, lenta, silenziosa. Un rituale da cucina vera, dove le ore contano più dei minuti e la pazienza vale quanto il sale. La chiamano “genovese”, ma con Genova ha poco a che fare. E chi la conosce lo sa bene: è roba nostra.
Le origini della genovese sono ancora oggi avvolte in un alone di incertezza. Qualcuno dice che il nome venga da cuochi liguri trapiantati a Napoli nei secoli passati, altri la legano a tecniche di brasatura tipiche della cucina francese.
Fatto sta che, nel cuore partenopeo, questa salsa ha preso forma in un modo tutto suo: massicce quantità di cipolla dorata, tagliata fine, messa a cuocere piano piano finché non si arrende al calore diventando crema.
Non c’è pomodoro. Non ci sono scorciatoie. C’è solo una carne intera — girello o lacerto, a seconda delle scuole — che deve impregnarsi dei profumi e sciogliersi quasi come fosse burro. E c’è il tempo: almeno cinque, sei ore, meglio se otto. Perché la genovese, se ha fretta, diventa un’altra cosa.
La Genovese è un sugo che cuoce anche i ricordi
Nelle famiglie napoletane, ognuno ha la sua versione. C’è chi ci mette una punta di vino bianco, chi un cucchiaio di strutto, chi si affida solo a olio e cipolla. Ma ogni tanto capita che qualcuno riesca davvero a fare la differenza. Nel mio caso, quel qualcuno era uno mia vicina di casa che ogni volta che la preparava ce ne portava mezzo chilo. Per la nostra gioia!

Vivevamo in pieno centro di Napoli e la sua genovese era famosa tra i vicoli quanto certi soprannomi che non si cancellano più. Nessuno sapeva cosa ci mettesse, ma tutti dicevano che era diversa. Più intensa, più rotonda, più “napoletana”, qualunque cosa volesse dire. Lui sorrideva, girava il mestolo e non diceva niente. Ma sapevamo che c’era qualcosa che non ci voleva dire.
Dopo che se n’è andata, qualcuno ha provato a imitarla. Senza riuscirci. La sua ricetta non l’ha lasciata scritta, e l’ingrediente segreto è rimasto dove probabilmente voleva restasse: nella memoria di chi l’ha assaggiata.
Magari era un’erba, un gesto, una tempistica. O magari era solo lei, con quel modo di essere presente anche stando zitta. In fondo, la genovese è una salsa che non parla mai da sola. Ha bisogno di una casa, di una radio accesa in sottofondo, di qualcuno che sa aspettare. Perché cucinarla significa fidarsi del tempo. E fidarsi, oggi, è già mezza vittoria.