Ci sono piatti che non fanno notizia, ma custodiscono storie più vere di tante mode. E aspettano solo di essere ascoltati

Non tutto ciò che vale arriva in prima serata. Vale anche in cucina. In un Paese dove il brand “Italia” è ormai diventato sinonimo di pasta alla carbonara e pizza napoletana (spesso maltrattata), ci sono piatti che restano a casa.
Non salgono sui treni dell’hype, non viaggiano con le stories, non si fanno notare nei menu gourmet. Ma stanno lì, da secoli, a raccontare storie vere. E a dare sapore all’identità, non al palato dei turisti.
I Malloreddus alla campidanese, ad esempio. In Sardegna li chiamano affettuosamente “gnocchetti”, ma di fatto sono una dichiarazione d’indipendenza gastronomica. Piccoli, rigati, ruvidi: perfetti per trattenere il sugo. Che sugo? Quello campidanese, naturalmente: salsiccia sbriciolata, pomodoro e zafferano, magari con un tocco di pecorino.
La semplicità, quando è vera, sa essere potente. Eppure anche i malloreddus, fuori dall’isola, faticano a imporsi. Troppo identitari per essere omologati, troppo sinceri per diventare piatto “instagrammabile”.
Lo stesso vale, ma con un fascino completamente diverso, per i maccheroni alla mugnaia, gloria abruzzese che pochi conoscono. A Elice, in provincia di Pescara, si tramanda l’arte di creare un solo lungo spaghettone a mano. Uno. Solo. Senza tagli.
Pasta che si allunga tra le dita come un incantesimo artigiano, per poi finire nel piatto condita con ragù ruvidi, aglio e peperoncino, o sughi di carne cotti lentamente. Guardarla preparare è un rito, mangiarla è una festa. Ma se ne parli a Milano, ti chiedono se sia una nuova pizzeria.
La Tiella di Gaeta , i Cjarsons e la Pampanella: bontà tutte da scoprire
Dopo questi sapori decisi, serve un cambio di passo. Più delicato, più poetico. I Cjarsons arrivano dal Friuli, più precisamente dalla Carnia, e non si somigliano a nient’altro. Hanno la forma di un raviolo, ma dentro nascondono patate, erbe di montagna, uvetta, menta, cannella, talvolta persino cacao o marmellata.

Un pasticcio? No. Un piccolo miracolo di equilibrio tra dolce e salato, tra tradizione contadina e raffinatezza inconsapevole. Si servono con burro fuso e ricotta affumicata. Ma bisogna fidarsi, perché a leggerne la descrizione si fa fatica a immaginarne la bellezza.
E poi c’è lei, la Tiella di Gaeta, che andrebbe studiata a scuola. Non solo per la bontà, ma per la capacità di restare se stessa. Due sfoglie di pasta di pane racchiudono un ripieno saporito di polpo, pomodori, olive nere, aglio, prezzemolo. Ma ne esistono mille versioni: baccalà, scarola, alici, cipolla.
È un piatto di costa, ma non da ristorante stellato: lo si compra al forno, si mangia con le mani, si porta al mare. Va gustata fredda, quando gli ingredienti hanno fatto amicizia. È cibo identitario, vero, che non ha bisogno di ruffianerie. Eppure fuori da Gaeta la conoscono in pochi. Forse perché è troppo autentica per essere copiata.
Chiude la rassegna una bomba molisana di cui si parla troppo poco: la Pampanella. Carne di maiale speziata con aglio e peperone dolce, cotta in teglie di terracotta fino a diventare tenera, piccante, unta al punto giusto.
Si vende nei mercati, avvolta nella carta, con quel profumo inconfondibile che resta sulle dita e nei ricordi. Un piatto che non si fotografa: si addenta. Un’esperienza carnale, più che culinaria. Eppure fuori dai confini del Molise, è quasi sconosciuta.
Cinque piatti, cinque territori, nessuna scorciatoia. Cose vere, che resistono. E che, forse, è arrivato il momento di rimettere al centro della tavola.