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Il rito della marenna

Il rito della marenna

Testi e foto di Lello Tornatore

In momenti difficili, qual è quello che stiamo vivendo, capita di ripercorrere a ritroso tutta la propria vita. E allora, come in un film, ti compaiono davanti agli occhi tutte le scene quotidiane vissute dalla fanciullezza in avanti. Una di quelle scene, dalla primavera in avanti fino all’autunno, si ripeteva quotidianamente a casa dei miei nonni, contadini dell’Irpinia: il rito de “‘a marenna”.

La giornata in campagna iniziava con il sorgere del sole e terminava a notte inoltrata nello sbrigare le ultime necessità di cura degli animali. Nel mezzo, a dividere perfettamente in due parti uguali “la giornata”, si posizionava questo momento di stacco dalle pesanti incombenze lavorative. Ma non si collocava sempre nello stesso luogo, bensì era itinerante, a seconda del posto dove quel giorno si svolgevano i lavori. All’ora stabilita, le facce degli uomini, stanchi e desiderosi di colmare i languori che sopraggiungevano dallo stomaco, assumevano un’espressione più allegra nello scorgere da lontano le figure femminili. Le donne arrivavano cantando e reggendo i bambini per mano, con una cesta autoprodotta di sfogli di castagno (ruagna) in equilibrio sulla testa contenente tutto il “necessaire” per il pasto. Dopo aver scelto un posticino “a remoto” (riparato dal vento di tramontana), mentre le donne preparavano il desco, gli uomini giocavano un po’ con i bambini e si sfottevano tra di loro. ‘A marenna consisteva in una sorta di pic-nic, con la differenza che le pietanze da consumare erano delle vere e proprie preparazioni di “cucinato”.

Anzitutto non mancavano mai il pane ed il vino, anche se il pane spesso era duro (si autoproduceva ogni 15 giorni) ed il vino quasi sempre annacquato per esigenze di lucidità sul lavoro, mentre per il resto si consumava quasi sempre un piatto caldo e nella scelta si seguivano tre criteri, quello della stagionalità, quello dell’autoproduzione e infine quello della selvaticità, che evitava loro anche la fatica della coltivazione o dell’allevamento. E se durante la guerra si mangiava tutto quello che si muoveva (aveva ragione quel poverino di Bigazzi), fino alla fine degli anni ‘70 i nostri contadini mangiavano anche il riccio, il ghiro, la volpe, Il tasso, eccetera. Nelle nostre campagne, a ridosso del capoluogo, l’olivo non produceva granché a causa dell’eccessiva umidità, e quindi l’olio veniva automaticamente eliminato dalla dieta e l’insalata si condiva solo con aceto e sale, inoltre la materia prima era rappresentata da erbette spontanee di campo che si recuperavano nei terreni scoscesi poco adatti alle coltivazioni. Invece di storcere il naso, come spesso si fa, bisogna avere un grande rispetto per queste consuetudini dettate dalla particolare condizione di bisogno in cui, a quei tempi, si versava. Perciò, tornando alle preparazioni della marenna, in primavera regnavano le preparazioni a base di fave, fave a zuppa, fave fritte, o semplicemente crude con un pezzetto di pancetta o di pecorino. Una curiosità, all’epoca per economicità, si cuocevano anche i baccelli delle fave, provate a farlo, sono molto buoni. Ma si portava sui campi anche la zuppa di “accio e patane”, spesso addizionata con ritagli di baccalà o stoccafisso, a quei tempi pesce povero, oppure il mallone co’ ‘a pizza ionna (la pizza gialla), a base di rapeste (rape selvatiche) e patate lesse.

A maggio era consuetudine preparare un’altra zuppa di stagione:“agli e fasuli”, si sbollentava l’aglio fresco con tutti i gambi e si amalgamava con i fagioli e l’origano fresco. Con l’aglio fresco si preparavano anche delle splendide frittate, davvero pratiche da consumare sull’erba, nei campi. Molto gettonati nel periodo estivo erano i fagiolini, con patate e cipolle in bianco. A zuppa col pomodoro invece, si cucinavano i fagioli teneri lardari, per capirci, quelli larghi. Da giugno in poi, difficilmente passava una settimana senza ciambotta: ingrediente principale le zucchine, insieme alle quali c’andavano tanti altri ortaggi, come le patate, i fiori di zucca, le melanzanine, insomma era una specie di minestrone estivo. Sempre nel periodo estivo spopolavano patate, friarielli (per noi irpini i peperoncini verdi) e cipolle. Sotto carnevale e Pasqua si usava preparare una sorta di bomba fritta, “Patane, pipilli, salisicchi e ove” (patate, peperoncini piccanti, salsiccia scamosciata e uova) e lì il vino (o meglio “l’acquato”) scendeva a fiumi. Un posto importante nei menù della “marenna” era occupato dalle melanzane, sia “a fungitiello” che indorate e fritte. In autunno, periodo di zucche, “correva cocozza, pupacchie e fasuli”, preparazione incredibilmente ben bilanciata anche senza volerlo, infatti l’acidità della pupacchie sott’aceto contrastava bene la tendenza dolce della zucca e dei fagioli, il resto lo completava la piccantezza del peperoncino. Un’altra cosa non mancava mai nella “ruagna”: le patate cotte sotto la cenere, che svolgevano la funzione di completamento per chi aveva ancora un po’ di posto nello stomaco. Altro must era pane e cagliata. Sempre tutto improntato alla filosofia del recupero, questa preparazione si rispolverava quando le donne di casa facevano il formaggio. Consisteva in pane raffermo tagliato a tocchetti sul fondo della pentola che veniva completamente coperto con la cagliata calda ancora piena di siero. In questo modo si effettuavano due recuperi, quello del pane e quello del siero. Nella ruagna trovavano posto anche le mele e le patate cotte la sera precedente, e prelevate dal “caoraro” fatto bollire per alimentare i maiali e contenente mele di scarto (con qualche punto di marcio) e patate “‘ntaccate “o “patanielli” (troppo piccole per essere vendute). Da metà agosto, fino a fine settembre, insieme alle mele difettate e ai patanielli, si bollivano anche le spighe tenere, e anche queste prendevano posto nella ruagna della marenna.

E a proposito di spighe tenere, durante la loro stagione del fresco, si preparava anche un piatto che veniva consumato maggiormente in inverno, i cicci di S. Lucia, proprio per la ricorrenza della santa (13 dicembre) e che avevano come base il mais ammollato in acqua (se preparato a settembre era quello fresco), grano, ceci, pupacchie (peperoni tondi sott’aceto) e pomodoro. Come si può notare, la dieta dei contadini dell’epoca, quasi non prevedeva piatti a base di carne, eccetto che in alcuni momenti particolari: ad esempio quando si vendeva un vitello, durante l’estenuante trattativa, si tentava di far rientrare l’impegno del macellaio a lasciare al contadino alcune parti povere dell’animale, tipo la coda, i piedi per il brodo, la carne di faccia per le braciole (involtini) e altre frattaglie di poco conto. Un altro momento in cui si mangiava carne, questa volta bianca, era quando qualche coniglio finiva sotto i piedi della mucca. Sempre per l’ottimizzazione di ogni piccola risorsa, i conigli si allevavano liberi, nella stalla dei bovini e non venivano governati ma si nutrivano con il fieno che cascava dalla mangiatoia dei vitelli. Qualche pollo o gallina, si mangiava invece quando litigando tra loro, qualcuno aveva la peggio e quindi per non rischiarne la morte e quindi il mancato utilizzo, si macellava … preventivamente.

Ma vi domanderete, perché tenevano per loro gli scarti della produzione e dell’allevamento e dove finivano i prodotti di prima scelta? Semplice, una parte serviva a “togliere gli obblighi” e cioè andavano al proprietario del fondo, al medico, al farmacista, al prete e al maresciallo dei carabinieri, il resto si vendeva per recuperare le risorse occorrenti per qualche paio di scarpe, per qualche indumento, per mandare i bambini a scuola e per costituire una riserva in caso di malattia o di imprevisti. Come abbiamo visto, qualsiasi scelta è sempre dettata da motivazioni economiche e quindi dall’esigenza di ottimizzare, anche riguardo ai tempi e alla forza delle braccia. Infatti, non a caso la solidarietà lavorativa nel mondo rurale ha sempre rappresentato un punto centrale. I contadini hanno capito da sempre che bisognava battere il ferro quando era caldo: ci si aiutava l’un con l’altro a seconda delle esigenze di coltivazione di ognuno, si diceva a “scorta’ jurnate” (scambiarsi giornate lavorative). Quindi tornando alla nostra marenna, la motivazione per cui non si andava a casa a desinare, era dettata anch’essa da esigenze di risparmio, questa volta di tempo. Non so voi, ma ogni volta che penso a queste condizioni di vita, e a come venivano vissute dai protagonisti, in alcuni momenti in rassegnazione, in altri persino con flebile gioiosità, mi commuovo e non riesco a capacitarmi di come si faccia a vivere secondo l’attuale stile di vita consumistico e con quale coraggio si reputino essenziali alcune abitudini di cui si potrebbe fare tranquillamente a meno. Non sono per la decrescita felice, ma mi indigno di fronte al genitore che compra il telefonino al bimbetto di 6 anni, giustificandosi con la tranquillità di sapere sempre il pargoletto dov’è!!!

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