I Personaggi

Procida, capitale del mio cuore

Procida, capitale del mio cuore

di Annamaria Punzo

La proclamazione di Procida a Capitale della Cultura per il 2022 non è mai stata una scommessa. Piuttosto una certezza, una profonda e radicata consapevolezza nell’animo e nelle menti dei procidani del loro valore e del proprio bagaglio umano, sociale e culturale. Uno stile di vita che abbiamo raccontato la scorsa estate, quando questa piccola oasi nel Golfo di Napoli ci ha accolti ed ospitati. Ed è per questo che quando lunedì 18 gennaio ci è giunta la notizia della meritata vittoria, lo stupore ha lasciato spazio alla gioia, alla fierezza ed all’emozione.

Il primo pensiero è stato quello di contattare Libera Iovine, chef stellata di origini procidane che della sua terra si è sempre fatta ambasciatrice ed ardito difensore. Le abbiamo rivolto qualche domanda ed ascoltarla è stato come leggere un racconto che fa bene al cuore e all’anima.

Libera, Procida è stata eletta Capitale Italiana della Cultura per il 2022. La tua Procida…che sensazione hai provato?

«La sensazione che ho provato è stata incredibile, mi sono commossa guardando i vari video che si sono succeduti e sono estremamente felice perché sono certa che tutto questo sarà fondamentale per l'isola negli anni a venire. Non nego che in un futuro alquanto prossimo tra miei progetti c’è Procida».

Nei tuoi piatti possiamo ritrovare Procida e i posti che vivi ogni giorno. Come vivi la ricerca alla base di tutto ciò? Le materie prime si dice facciano la differenza…

«Adesso in questo momento, sono alla ricerca del sapore puro e semplice, la materia prima per me è essenziale, non ho nessun interesse di stravolgerla ma di preservarla il più possibile, cerco di portare nei piatti i sapori delle mie isole».

Quanto è importante per uno chef del tuo calibro il concetto di “appartenenza”?

«L’appartenenza ad un luogo è per me vitale, potrei girare per il mondo intero ma ritornerei sempre in questi luoghi. Anzi, oggi più che mai, voglio essere come una cozza attaccata su questi scogli».

Procida è casa tua, le isole del golfo forse lo sono un po’ tutte ormai. Parlami del rapporto con questa terra partendo dalla tua infanzia.

«La mia infanzia l’ho trascorsa in un ambiente estremamente contadino, con i miei genitori che coltivavano la terra, ma a Procida non si è mai lontani dal mare. La vita era semplice e soprattutto caratterizzata da odori e sapori intensi, con la legna nel camino dove c’era sempre una pentola a sobbollire. Tutto ciò che veniva cotto e mangiato era a chilometro zero, così come adesso. Questo ha influenzato in maniera determinante quella che sono. Sono nata alla fine degli anni cinquanta, praticamente ho iniziato a camminare a quattro zampe nell’orto di mio padre, assaggiando tutto quello che mi capitava tra le mani. A quel tempo schiacciai con le mani un uovo nel tentativo di rincorrere una gallina, ed è per questo che dal quel momento in poi ho sempre odiato le uova. Le cucino, eseguo frittate ed omelette di ogni tipo…ma non chiedetemi di assaggiarle! La mia infanzia è stata scandita da ritmi precisi. Partivo da casa mia, via Ottimo a pochi passi dal Faro, per andare a scuola a piedi; prima però con un cesto di ortaggi dovevo passare giù al porto da mio zio Vincenzo a consegnare i prodotti dell'orto e lui mi dava il pescato di giornata. Una sorta di “cala cala”, cioè il vecchio rito di calare il cesto con i prodotti della terra sulla barca del pescatore per riceverne in cambio il pesce, un baratto alla pari. Poi correvo verso scuola, dove mia madre mi aspettava per consegnarle il pesce. Anche lei nel frattempo aveva fatto una consegna di prodotti dell'orto».

È una storia d’altri tempi, incredibile…

«Si, poveri ma felici. Gli anni ‘60 e ‘70 per Procida erano anni magici. Il traffico era sostenibile, un turismo solo di intellettuali, ricchi tra cui il celebre Barone Lepitit che voleva trasformare l'isola, ma non gli fu permesso. I pantaloni erano a zampa di elefante, i colletti delle camice imbarazzanti e la Procida benestante, con i tanti denari dei marittimi, non gradiva il nuovo processo turistico. Capri decollava, Ischia lievitava a dismisura e Procida annaspava. Pochi turisti di buona qualità, qualche centinaio di posti letto, pochi ristoranti ma con una cucina di altissima genuinità».

Qual è il primo ricordo gastronomico che hai?

«Non nego che pane e pomodoro fa parte dei mie ricordi e sono alla base della mia dieta, naturalmente ci sono dei piatti della infanzia che ancora oggi influenzano la mia cucina, l’insalata di limone, pizza di scarola, spaghetti con i ricci, il pesce "fiuto", carciofi ripieni cotti sotto la cenere e la lista potrebbe continuare all' infinito».

Così hai iniziato a cucinare?

«Ho iniziato a lavorare in un primo ristorante, giù al porto "La Medusa", lavavo i piatti e davo una mano dove serviva. Mi barcamenavo tra l'orto per aiutare mio padre ed il lavoro nel ristorante. In primavera le giornate erano interminabili: patate, fave, piselli, carciofi da raccogliere, galline da pulire, conigli da sistemare e poi il sabato e la domenica pesci da squamare, cozze di scoglio da strofinare e tanto altro nel ristorante. Nel 1975 ebbi la sventura di conoscere mio marito e da allora ad oggi ho messo cinquanta chili e questo già basta per capire come il buon cibo ed il buon bere abbia influenzato la mia e quindi la nostra vita. Continuai il lavoro in cucina con mio marito, figlio di ristoratori, promossa sul campo da “sciaquina” a chef non per bravura ma per necessità. I soldi erano pochi e bisognava risparmiare sul personale. All'inizio due paninoteche sempre nella piccola Procida che iniziava, quasi sommessamente a cambiare: "Old Rock e Malibù" una sul porto di Marina Grande e l'altra sulla spiaggia di Chiaiolella. Pochi panini, ma anche in questo caso solo materie prime di alta qualità. Un grande successo. Gli anni passano e Procida da Cenerentola inizia a trasformarsi, i porti si riempiono di barche importanti ed io e mio marito sentiamo la necessità di cambiare: la piccola paninoteca sulla spiaggia della Chiaiolella la trasformiamo in un accogliente ristorante: "La tavola del re". Cucina di giornata e di mercato con i pescatori che portavano il pesce direttamente in cucina, abolizione della famigerata brocca del vino ed una carta ben strutturata con piatti della tradizione leggermente ritoccati. Inizio difficile per quell'epoca, proporre un vino a 18.000 lire quando il pranzo ne costava 20.000 era abbastanza complicato. Procida era sempre più bella ma non ancora pronta per certi discorsi, ma al di là del lavoro, viverci era di una bellezza sconvolgente. Eppure la voglia di crescere era tanta».

Cosa è successo? Avete a quel punto cambiato rotta?

«Anche se a malincuore andammo via, “valigia di cartone” e partenza: Milano, Germania, Roma, ed infine nel 1993 Ischia. A quel tempo incontrammo Corrado D’Ambra, una rivelazione perché dal 1993 al 1995 ci permise di esplorare le bellezze della cucina isolana nella grotta della tenuta D’Ambra dei Frassitelli, ed ancora nei locali dell’azienda. Nel marzo del 1996 abbiamo aperto “il Melograno”, sempre ad Ischia. Fu una scommessa, un giardino bellissimo ed uno spazio da rinnovare, che mi portò nel 2001 a prendere la mia stella Michelin, mantenuta fino alla chiusura del ristorante nel 2014. Ma questa è un'altra storia, adesso bisogna solo tornare per chiudere in bellezza un cerchio: riabbracciare i colori pastello delle case della Corricella o della Chiaiolella per un ultimo ristorante o meglio quello che amerei definire una trattoria di altissima qualità».

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